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Su Nature, studio dello sviluppo umano a partire da cellule staminali
La storia di Gage: terapia con cellule mesenchimali
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Vi ricordate la storia di Alex?

Si chiama Emapalumab la molecola salvavita che si appresta ad alimentare la speranza di altri bambini che, alla pari di Alex, sono in attesa di trovare un donatore compatibile di cellule staminali emopoietiche. Nel caso di Alex, fu il padre a donare le cellule.

La linfoistiocitosi emofagocitica primaria è una malattia rara, ma potenzialmente fatale. Si manifesta perlopiù nel corso dell’infanzia, sebbene sia stata osservata in tutte le fasce d’età. La malattia, causata da mutazioni di geni che determinano la proliferazione incontrollata delle cellule più grandi del nostro sistema immunitario (i linfociti T citotossici e le cellule natural killer), è caratterizzata da una risposta infiammatoria spropositata che, poco alla volta, determina un danno diffuso a organi e tessuti. Nello specifico, la linfoistiocitosi emofagocitica primaria si manifesta nella maggior parte dei casi nel primo anno di vita. La febbre, spesso elevata, è di norma il primo campanello d’allarme (aspecifico).

Emapalumab è già stato approvato dalla Food & Drug Administration (FDA), l’ente che si occupa dell’autorizzazione all’utilizzo di nuovi farmaci negli Stati Uniti. Il fascicolo è adesso in fase di valutazione anche nel Vecchio Continente, da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA).

La sperimentazione apre la strada anche alla possibilità di trattare i piccoli pazienti affetti da linfoistiocitosi emofagocitica primaria (2 ogni 100mila nuovi nati) con l’anticorpo monoclonale fin da subito.

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche è considerato l’unica soluzione per la malattia.

D’ora in avanti, il «ponte» con cui alimentare le speranze di queste famiglie in attesa del trapianto potrebbe chiamarsi emapalumab. La somministrazione dell’anticorpo monoclonale, diretto contro una molecola (interferone gamma) che gioca un ruolo chiave nel regolare la risposta immunitaria e che risulta prodotta in eccesso nei pazienti con la linfoistiocitosi emofagocitica primaria, ha permesso di «spegnere» la risposta infiammatoria, in attesa del trapianto.

 

Fonte: Fondazione Veronesi

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