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La prima vita di Mohammed finì quando aveva solo 6 anni. All’inizio, c’era solo qualche febbriciattola notturna accompagnata da una blanda infiammazione delle gengive. Man mano che le settimane passavano, le febbri cominciarono a peggiorare, divennero sempre più violente. Una sera, Mohammed venne preso dalle convulsioni.

La madre, completamente da sola con lui e con gli altri figli, non sapeva cosa fare. Per una lunga, eterna notte, sembrò che il bambino dovesse morire tra le sue braccia. Invece Mohammed si riprese e i suoi genitori lo portarono da un medico di Minab, per dare un nome alla sua malattia e curarlo.

Niente.

Lo portarono a Bandar Abbas, allora. I medici scoprirono che i livelli delle piastrine del bambino erano troppo bassi, ma ancora nessuna diagnosi. Forse a Yazd avrebbero trovato la risposta che stavano cercando.

I due portarono Mohammed allo Shahid Sadoughi Hospital e lì, dopo un viaggio di oltre 800 km, ebbero finalmente una diagnosi: leucemia mieloide acuta (LMA), un tipo di tumore che provoca lo sviluppo anomalo di globuli bianchi. Le cellule malate iniziano ad attaccare i globuli rossi e le altre cellule ematiche, bloccando pian piano le normali funzioni dell’organismo e portando alla morte. Qualche volta, basta la chemioterapia per bloccare l’avanzamento della malattia.

Non nel caso di Mohammed.

Con lui, la chemioterapia non funzionava. Per due anni, il bambino portò avanti una lotta impari contro la malattia, una lotta che stava perdendo. Secondo i medici, l’unica speranza stava nel trovare un donatore di midollo osseo compatibile con lui; una vera e propria scommessa. Peccato che, nonostante Mohammed fosse il quarto di sei figli, nessuno dei suoi fratelli fosse un donatore compatibile.

Era finita, quindi.

Mohammed cominciò un trattamento a base di radiazioni e sua madre insistette per rimanergli accanto. Un’infermiera le chiese di fare un test di gravidanza per accertarsi di non essere incinta, onde evitare che le radiazioni facessero del male a un eventuale feto. La donna fece come chiesto, per sicurezza, scoprendo di essere davvero incinta. Non sarebbe potuta rimanere accanto al figlio, ma forse il bambino che portava in grembo poteva diventare un donatore.

Fecero i test necessari e sì, il settimo figlio della coppia si rivelò essere un donatore al 100% compatibile.

La seconda vita di Mohammed iniziò quando i medici prelevarono il sangue dal cordone ombelicale del fratellino. Al suo interno c’erano le cellule staminali che avrebbero ripristinato il suo sistema immunitario, consentendogli di tornare alla normalità dopo anni di chemioterapia e radioterapia.

Sono passati 12 anni da allora e oggi Mohammed ha 22 anni. I giorni passati in ospedale sono ormai un ricordo e oggi studia per diventare insegnante. Gli piace il calcio, pratica sport, socializza, studia come tutti i ragazzi della sua età.

Vive come non avrebbe mai potuto fare, non fosse stato per una fiala di sangue del cordone ombelicale.

Fonte: parentsguidecordblood.org

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Badalà/Lombardo (Cliente Sorgente)

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