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Finalmente anche in Italia, uno studio sull’uso delle cellule staminali in ambito neurologico

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Finalmente anche in Italia, uno studio sull’uso delle cellule staminali in ambito neurologico

Non è soltanto una malattia acuta. Il trauma cranico scatena nel cervello un processo cronico che porta a infiammazione e, in almeno un caso su tre, a neurodegenerazione. Per arginarlo non abbiamo ancora terapie efficaci. Ma una speranza arriva dalle cellule staminali, che sembrano essere in grado di amplificare gli eventi di riparazione spontanea di risposta al trauma con una efficacia e una sicurezza tali da giustificare uno studio clinico su pazienti in coma dopo trauma cranico, frutto di una collaborazione tra clinici e ricercatori di base.

Con le staminali si interviene sul campo di battaglia che riguarda l’encefalo, battaglia che vede da un lato la progressione del danno e dall’altra la capacità autorigenerativa: “Finora gli studi clinici condotti con le staminali per migliorare gli esiti di un trauma cranico sono stati condotti a distanza di mesi dall’evento: intervenendo immediatamente, ovvero in acuto, ci aspettiamo di contrastare maggiormente la progressione del danno strutturale, funzionale e metabolico”, spiega il responsabile del progetto Giuseppe Citerio, direttore della Neurorianimazione e del dipartimento di Neuroscienze dell’Asst-Monza e professore di anestesia e rianimazione dell’Università di Milano Bicocca. Lo studio, il primo a intervenire così precocemente, si è aggiudicato un grant della Regione Lombardia da un milione e duecentomila euro.

Un risultato possibile grazie a “un decennio di studi su modelli animali, in cui abbiamo capito che le cellule staminali, se trapiantate nel cervello o infuse nel circolo sanguigno, non si integrano nel tessuto cerebrale, a tutto vantaggio della sicurezza dell’intervento. La loro azione terapeutica si esercita invece attraverso il rilascio di particolari molecole in grado di stimolare la riparazione e la neuroprotezione del cervello traumatizzato”, spiega Elisa Zanier, responsabile del laboratorio Danno Cerebrale Acuto e Strategie Terapeutiche dell’Istituto Mario Negri, dove lavora allo sviluppo di nuove terapie per riparare il tessuto cerebrale danneggiato. “Nei nostri laboratori abbiamo documentato che le cellule staminali iniettate nel sangue riducono i disturbi motori e della memoria indotti da un trauma cranico”.

Il progetto prevede il reclutamento dei pazienti con trauma cranico grave ricoverati nelle terapie intensive del San Gerardo di Monza, del Policlinico di Milano e del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, con il supporto organizzativo dell’Università di Milano Bicocca. I pazienti verranno trattati entro 48 ore dal trauma con placebo o cellule mesenchimali prodotte nella cell factory di Monza. L’efficacia dell’intervento sarà valutata dal punto di vista sia neurologico, tramite risonanza magnetica eseguita dal Centro Rm3Tesla del San Gerardo e test neuropsicologici, sia biochimico, con l’analisi dei biomarcatori eseguita dal Mario Negri.

“Un’indagine così dettagliata consentirà anche di accelerare la comprensione della biologia del danno cerebrale in termini di potenziale rigenerativo e risposta plastica del cervello”, spiega Elisa Zanier, “oltre ad aprire la strada a un trattamento per una condizione che è al momento orfana” e per la quale si procede unicamente con il sostegno alle funzioni vitali, prima, e la riabilitazione, dopo.

“La mortalità è diminuita, ma aumentano le disabilità importanti, fisiche e cognitive, anche a esordio tardivo”, dice Giuseppe Citerio, uno dei massimi esperti di traumatologia cranica. A dirlo è anche una commissione speciale di esperti, una Lancet Neurology Commission. I lavori della Commissione, chiamata a fare il punto sulla ricerca e la gestione clinica del trauma cranico e sulle sfide ancora aperte, sono appena stati pubblicati su Lancet in concomitanza del meeting europeo del Center-TBI.

Citerio è tra gli autori: “Parliamo di un grave problema sanitario mondiale. La prevenzione e la diagnostica hanno fatto passi avanti e lo stesso si può dire, in parte, anche della capacità di identificare i sottogruppi di pazienti a prognosi migliore per i quali è opportuno proseguire le terapie intensive per più tempo”.

Ma molto rimane da capire per migliorare le ricadute cliniche: “Circa il 90% dei traumi sono categorizzati di media gravità ma in un caso su due permangono deficit a sei mesi dall’evento. Il trauma cranico nelle donne ha una prognosi peggiore con più alta frequenza di eventi neurodegenerativi: perché questo accada non è ancora del tutto chiaro”, conclude Citerio.

Fonte: Repubblica

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